Il numero 33 del 13 agosto 1916, pubblica in copertina la fotografia di un sommergibile tedesco catturato dagli inglesi ed esposto al pubblico londinese sul Tamigi: sotto la testata, in evidenza con caratteri rossi, l’annuncio “In questo numero: due rarissime fotografie del bombardamento i Fiume e i documenti della conquista di Gorizia”.
La seconda copertina è dedicata ad un altro martire dell’irredentismo italiano, Fabio Finzi, fotografato al fronte in un posto d’ascolto telefonico.
Un articolo di Enrico Cavacchioli è dedicato alla conquista di Gorizia, il titolo è “Gorizia riconsacrata”. L’articolo è corredato da quattro fotografie, due mostrano vedute dalla città, una la chiesa sotto il castello e un’altra soldati italiani con sullo sfondo Gorizia, il titolo è “ricordi delle ore di battaglia, in faccia a Gorizia contesa dal cannone austriaco”.(in post Gorizia II parte)
Cosa scrive Cavacchioli? Per comprendere e accettare le sue parole, occorre calarsi in una situazione di attesa per una vittoria che non veniva in una guerra che, per la sua lunghezza, stava già facendo scricchiolare il delicato equilibrio politico italiano. C’era poi un elemento di vitale importanza per l’andamento della guerra: i soldati erano stanchi di morire inutilmente e questo lo sapevano sia i generali che gli esponenti della politica. Scrive Cavacchioli: “ieri quando più il sole cacciava il suo sprone implacabile nel fianco delle città riarse, vuote d’uomini, ma tumultuose di fatica, e l’anima supina delle folle sembrava incominciasse a cristallizzarsi nella rassegnazione grigia dell’attesa, la visione di Gorizia inchiodata dai cannoni italiani si è sparsa a ventaglio come un’esplosione di magnifica allegrezza.” La notizia guarisce tutti i mali della guerra. Cavacchioli da alla vittoria di Gorizia un’immagine ideale che “come un personaggio di epopea, come un indefinibile fantasma, cementato di desiderio, sorto dall’orchestra umana dei lamenti, dagli urli dei feriti, dall’orrore della battaglia cieca, dalle raffiche dei proiettili, dal rombo delle esplosioni, dallo schianto delle bombarde, Ella continuava con passo calmo e maestoso il cammino grave e solitario”. Ora tutto sembra finito, si sciolgono le campane e “ogni lutto s’inghirlanda…e per questa angoscia che diventa fiamma, per questo singhiozzo che si smorfia in un sorriso, oggi esultano gli italiani, mentre Gorizia si sveglia nell’ora della risurrezione”. Sembra che la guerra sia finita, o almeno è questa l’idea che si vuol dare di questa vittoria che si rivelerà non solo grondante di sangue, ma che sarà quasi vanificata dall’impossibilità di proseguire l’offensiva. In una delle fotografie che corredano l’articolo di Cavacchioli ci sono i morti, è quella con il corpo di due caduti in primo piano e Gorizia sullo sfondo. Non proviene dal Servizio Fotografico ma è copyright de Il Mondo.
Anche l’immagine più famosa di questo episodio della Grande Guerra, la stazione di Gorizia è di proprietà de “Il Mondo”. Sulla stazione di Gorizia verranno pubblicate diverse fotografie ed è significativo che sia proprio una stazione a divenire il simbolo di una vittoria: cosa c’è più importante di una stazione, in questa guerra in cui il controllo delle linee di approvvigionamento di uomini e mezzi risulta di vitale importanza?
Una fotografia aerea mostra Gorizia dal cielo, la città è suddivisa in 18 punti con i centri nevralgici più importanti. Un’altra è dedicata all’arma definita “trionfatrice”, è il lanciabombe. L’arma non è novità, ma viene impiegata per la prima volta dagli italiani.
Nella sua consueta rubrica Innocenzo Cappa ricorda che è passato un mese dal sacrificio di Battisti.
È un articolo che va letto con attenzione perché in esso ritroviamo tutti quegli elementi di “guerra civile” che avevano caratterizzato il periodo tumultuoso precedente l’entrata dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale. L’Italia è geograficamente tesa nel Mediterraneo, scrive Cappa, e quindi circondata da popoli forti di cui alcuni oggi sono amici mentre ieri erano nemici “la gente slava, la tedesca, l’inglese, la Francia! Chi può fare il passo con simili energie, se non si affretti di molto? E chi può sperare a lungo di giri di valzer fra simili danzatori della morte e della gloria?” E qui Cappa lancia l’affondo con i nemici interni, quelli che poi saranno chiamati “disfattisti” e oggetto di un’odiosa campagna politica, tesa ad occultare le gravi responsabilità nella conduzione della guerra dopo la disfatta di Caporetto. “Ma avevamo forse noi, noi stessi, in casa nostra, una religione nazionale del nostro compito nel mondo? Ah! Tristi ricordi! I più internazionalisti (curioso internazionalismo) insegnavano il disprezzo della politica estera in nome delle tariffe. I più ortodossi (strana ortodossia) ci insegnavano, con don Abbondio, che è meglio non infastidire i potenti. I più romantici (romanticismo che si è riabilitato con il sangue dei volontari) giuravano che la guerra si sarebbe estinta all’indomani dell’abolizione di ogni spesa militare…Chi conosce il nostro popolo delle campagne e delle città, chi non vuol fingere di ignorare la subdola sottigliezza di certa politica realistica, senta alla fine che, dopo la tempesta di sangue della guerra, bisognerà aver acquisita almeno questa fierezza: il nostro posto di nazione non ci deve essere regalato più da nessuno. E non si tratta conciò di fare dell’idealismo. Non è il delirio di Don Chisicotte…E’ una rivolta idealistica e realistica insieme.”
In queste parole c’è soprattutto l’astio verso coloro, Giolitti e i liberali che avevano retto le sorti della politica italiana prima dell’entrata in guerra e avevano creduto di poterla tener fuori dal conflitto europeo, unito all’anticipazione di un futuro in cui sulla realtà prevarrà l’immaginazione. Questo atteggiamento mentale porterà non solo al fascismo, ma alla sottovalutazione degli avversari con l’entrata nella Seconda Guerra Mondiale. Bisogna aggiungere che tutte queste parole e grida di vittoria saranno vanificate un anno dopo, con Caporetto e il crollo di una parte dell’esercito italiano.
La copertina del numero 34, 20 agosto, è dedicata al re e al duca di Aosta, comandante della III armata che ha condotto l’azione contro Gorizia. In una fotografia di grande formato c’è il duca che entra in Gorizia: è un’immagine interessante perché c’è anche un cadavere accanto alle rovine. Il duca lo osserva e un componente del suo seguito si tappa il naso con un fazzoletto. Questa è forse l’immagine più realistica della guerra a Gorizia, con i morti e la puzza dei cadaveri in putrefazione (provenienza Reparto Fotografico).
Ancora una fotografia della stazione, semidistrutta e in stato di abbandono vista l’erba alta che corre lungo i binari.
Su due pagine, con il titolo “Gorizia accoglie nella sua vita nuova le truppe italiane vittoriose”, sei immagini in cui di vita nuova ce n’è ben poca. I soldati italiani entrano nella città e nessuno li festeggia, gli abitanti o sono fuggiti oppure sono rintanati nelle cantine nel timore che tornino gli austriaci e riprenda la battaglia. In quella eseguita in Corso Francesco Giuseppe il 9 agosto, c’è il cadavere di un soldato. Qualcuno pietosamente gli ha coperto il volto.
Sulla seconda copertina del numero 35 compare Cadorna, insieme ai suoi ufficiali osserva il panorama e sta dicendo qualcosa, forse stanno discutendo su come andare oltre Gorizia, un fatto che non avverrà a causa delle munite difese austriache sulle montagne che stanno dietro la città.
E giungiamo a quattro fotografie che non sono eccezionali, ma che rivestono interesse per come vengono presentate.
Per Il Mondo si tratta di visioni di “tragica bellezza”. Sono le rovine delle posizioni austriache, è la tragica bellezza della guerra evocata nel manifesto futurista del 1909. Luoghi in cui migliaia di uomini hanno perso la vita, un paesaggio sconvolto non solo dalle granate e dall’artiglieria di grosso calibro, ma anche dal quella semina d’odio che in futuro produrrà anche le foibe.
Nella rubrica “La guerra europea” un lungo spazio è dedicato alla conquista di Gorizia, viene ribadita l’idea iniziale di Cadorna di considerare l’occupazione della città solo come una tappa e si ammette che il compito di proseguire nell’avanzata non è semplice “Queste difficoltà sono ancora aumentate per avere gli austriaci in loro possesso, come abbiamo visto, le importanti posizioni del Monte Santo e del San Gabriele, le quali con la loro accanita resistenza ostacolano un’avanzata italiana verso l’altipiano della Banizizza, la quale avrebbe il duplice scopo di poggiare saldamente l’ala sinistra sulla riva orientale dell’Isonzo e di proteggere , con azione offensiva verso l’altipiano della Banizizza, il centro operante a oriente della piana di Gorizia”. L’anno seguente Cadorna proverà a sfondare sulla Banizizza, promettendo una vittoria definitiva sull’Isonzo, i sodati ci crederanno e quando vedranno che questo ulteriore bagno di sangue si rivela inutile, coglieranno l’occasione di Caporetto per dire basta, la guerra è finita, andiamo a casa.
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