lunedì 31 gennaio 2011

Verdun 1916 nelle riviste “Sur le vif”, “Panorama de la guerre”, “Le Miroir” Seconda parte


La rivista fotografica "Le Miroir" anche nel corso della Battaglia di Verdun si distingue dalle altre pubblicazioni. Le fotografie sono entrate nella storia dell’immagine della Prima Guerra Mondiale anche da un punto di vista particolare: la devastazione dell’ambiente.
Il forte di Douaumont è diventato uno dei miti della Battaglia di Verdun: considerato da Joffre inutile come tutti i forti, è occupato il secondo giorno della battaglia. A difenderlo sono rimasti solo una cinquantina di territoriali che stanno completando l’opera di smantellamento, i tedeschi lo occupano e danno risalto internazionale all’impresa: è a questo punto che la riconquista di Douaumont diventa simbolica. I combattimenti attorno a Douaumont sono estremamente violenti e le artiglierie opposte martellano la struttura di cemento riducendo il forte a un paesaggio desertificato, quasi lunare. "Le Miroir" nella stessa pagina mette a confronto due fotografie aeree, una del forte prima dell’attacco tedesco e un’altra mentre si svolgono i combattimenti. L’effetto è impressionante, al posto dell’edificio il terreno è semplicemente segnato da un’enorme macchia bianca coperta di crateri.
Le Miroir, N° 144 del 27-8-1916
Un confronto fotografico di questo tipo apre il tema della fotografia aerea e del suo affermarsi nel corso del primo conflitto mondiale. Nel corso della guerra verranno eseguite migliaia di fotografie aeree che metteranno gli stati maggiori degli eserciti in grado di controllare preventivamente il territorio e di pianificare gli attacchi.
E’ un processo culturale che non avviene di colpo, ma che si manifesta gradualmente e pone la vittoria nelle mani di chi controlla lo spazio aereo del territorio conteso. La fotografia aerea, figlia dello sviluppo della fotografia e della società di massa e industriale, risponde al bisogno di controllare di più e meglio il territorio che circonda l’essere umano. Quale visione migliore di quella dall’alto? Già Nadar, il primo ad effettuare riprese fotografiche da un pallone aerostatico, aveva indicato negli usi militari della fotografia aerea un passaggio importante nelle strategie e nelle tattiche nella guerra del futuro. Queste intuizioni tarderanno a concretizzarsi sul piano strategico della guerra, ma quando si comprenderà il valore decisivo dell’aviazione, le immagini aeree compariranno numerose sulle riviste illustrate ed eserciteranno un grande fascino sui lettori.
Altro luogo simbolo della battaglia è la collina del Mort-Homme, sulle pendici di questa altura si svolgono combattimenti di estrema violenza che sono raccontati da un’illustrazione molto efficace di "Le Panorama de la guerre" e da una fotografia di "Le Miroir": nella prima un combattimento corpo a corpo in cui i francesi difendono ogni palmo di terra, nella seconda vediamo un deserto: la terra sembra sconvolta dal passaggio di un enorme aratro.


Le panorama de la guerre-Le Miroir, N° 142
L’idea della modificazione del paesaggio ad opera di una scelta perversa degli uomini, risulta più efficace se si osservano le fotografie pubblicate sulle riviste con l’aiuto di alcune testimonianze di chi assiste a questa modificazione o la ricorda negli anni immediatamente successivi.
Un cappellano militare della 51° Divisione di Fanteria, l’abate J. Schuhler, il giorno 24 febbraio così descrive la situazione in cui lui e i soldati che gli sono vicini, vengono a trovarsi:
"Le grandi bombe cadono con rumore spaventoso e dentro nubi di fumo opaco, aprendo enormi crateri e moltiplicando le vittime. E' una valanga di terra calcinata, di schegge, pezzi di alberi: a volte, purtroppo, brandelli umani, gambe e braccia proiettate in aria, restano attaccati ai rami: spettacolo di un orrore indescrivibile."
La guerra di materiali rende impotente l’uomo. Ma se un paesaggio si modifica a causa di una tempesta di fuoco scatenata dagli eserciti, è l’essere umano stesso a sprofondare nel vortice. Chi sopravvive è un naufrago.
La modificazione del paesaggio a Verdun non sarebbe comprensibile senza un confronto con lo stupore di chi vede un piccolo mondo fatto di boschi, valli, villaggi, cambiare totalmente aspetto.
"Nel pomeriggio, le batterie tedesche, senza dubbio su indicazione degli aviatori, aprirono un fuoco battente sulla Quota 304 almeno per due ore. Quante tonnellate di proiettili caddero su questa collina? Con la mente scossa dalle vicine esplosioni, abbrutiti, aspettavamo in ogni momento di essere polverizzati, era sufficiente essere colpiti da una raffica. Infine l'uragano di ferro e di fuoco si calmò gradualmente per far posto ad un fuoco di sbarramento con intermittenza quasi regolare e quasi per caso."
Il bottaio Louis Barthas ha lasciato nei suoi diari di guerra una testimonianza importante su Verdun e sulla Grande Guerra. Barthas partecipa ai combattimenti nella primavera del 1916 davanti al Mort-Homme, insieme ai suoi compagni subisce il bombardamento; la collina del Mort-Homme appare a Barthas come:
"una collina che non si differenziava in niente da quelle vicine. Sembrava che fosse stata in parte boscosa, ma non c'era più traccia di vegetazione: la terra sconvolta offriva allo sguardo solo uno spettacolo di desolazione."
"Le Miroir" è in grado di offrire ai suoi lettori altre fotografie da cui è possibile comprendere cosa sia accaduto a Verdun, fra queste una è dedicata ai proiettili, alle milioni di bombe che hanno colpito il territorio.
Le Miroir, N° 158
Questa immagine evoca un impressionante silenzio, parlano solo i resti di metallo, i contenitori delle bombe: alcuni di essi saranno lavorati e modellati dai soldati per farli divenire portafiori a perenne ricordo della battaglia.
Sono milioni di bombe che cadono su uomini intrappolati in quello che sembra un girone infernale. Come sempre "Le Miroir" riesce a distinguersi: il combattimento non è presentato ai lettori con un’illustrazione, ma con una fotografia che non mostra alcun eroismo. C’è solo un gruppo di esseri umani sovrastato dal fumo delle esplosioni e rintanato in una fossa, attorno alberi scheletriti e bruciati.
Le Miroir, N° 159
Il confronto con l’illustrazione di "Le Panorama de la guerre" sul combattimento al Mort-Homme, colpisce: in questa fotografia non c’è alcun segno di eroismo, il gruppo di soldati è isolato in un fossato e sembra un’infinitesima parte del disegno di distruzione generato dalla guerra di materiali. Nell’illustrazione sopravvive la speranza che i combattenti stiano difendendosi e forse prevarranno, nella fotografia l’uomo è un naufrago in una tempesta d’acciaio. La fotografia vince il premio da 500 franchi messo in palio dalla rivista.
Sulla collina del Mort-Homme c’è un monumento che, se osservato con gli occhi di oggi, meglio di altri esprime la denuncia della guerra come offesa al genere umano. Quando venne eretto prevalse lo spirito del nazionalismo, per questo una scritta posta alla base ricorda che “non sono passati”.
Il soldato francese, caduto nel corso dei combattimenti al Mort-Homme è uno scheletro che si avvolge in una bandiera; attorno alla statua il bosco, oggi ricresciuto, mostra ancora visibili le tracce di bombardamenti e di una lotta così violenta da far diventare questo luogo simile a un deserto. Nei ricordi dei combattenti, il Mort-Homme venne associato più di ogni altra località in cui si svolse la Battaglia di Verdun, all'Inferno dantesco.
Un Inferno del tutto simile per francesi e tedeschi.

Monument de l’esquelette, Mort-Homme,
fotografia di Stefano Viaggio, 2003
Lo scheletro del Mort-Homme riassume tutte le fotografie e le illustrazioni di cui abbiamo parlato ed è difficile associarlo a una singola immagine. Due croci sono state poste davanti al monumento dello scheletro: una di pietra piatta e grigia, dedicata ai soldati tedeschi, l’altra bianca e di legno, simile a quelle di tanti cimiteri di guerra francesi.

stevial@interfree.it



sabato 29 gennaio 2011

Verdun 1916 nelle riviste “Sur le vif”, “Panorama de la guerre”, “Le Miroir” Prima parte

La Battaglia di Verdun (21 febbraio 1916-novembre 1916) ebbe un eco mondiale: fotografie dei combattimenti circolarono sulle riviste illustrate di tutti i paesi in guerra e di quelli neutrali, anche in Italia l’informazione diede un notevole spazio a questo avvenimento in cui francesi e tedeschi giocavano una partita decisiva per le sorti della guerra.
Nel già citato carteggio tra Margherita del Nero e suo marito Giuseppe Mizzoni si può trovare un’eco della Battaglia di Verdun.
In una lettera datata 10 maggio 1916, così Margherita scrive a suo marito.
“Qui corre voce che ora si sta sviluppando una grande azione tra Francesi e Tedeschi; fin ad ora i giornali parlano che la vittoria è dei francesi e si vocifera che si avrà presto la pace se seguiteranno a ricacciare i tedeschi, e si andrà per le lunghe se sarà il contrario. Magari fosse così, io faccio come tutte le altre spose mille auguri acciò presto si effettui questo comune desiderio.”
La strategia di Eric von Falkenhayn, comandante in capo delle forze germaniche sul Fronte Occidentale, intendeva sperimentare un nuovo tipo di guerra: costringere tutto l’esercito francese a concentrarsi nella difesa di un unico e simbolico settore del fronte, al fine di annientarlo con un attacco dissanguante.
L’idea di un logoramento più o meno rapido dell’esercito francese era anche il limite del piano tedesco: quando i reparti francesi che avevano sostenuto il primo devastante bombardamento del 21 febbraio 1916, pur decimati, uscirono dai loro rifugi per contrastare l’avanzata del nemico e al prezzo di un sacrificio molto duro ci riuscirono, la strategia di von Falkenhayn si rivelò un’illusione.
Verdun divenne allora il simbolo della tenuta dell’esercito francese: la parola d’ordine fu tenir e la consegna quella di farsi uccidere sul posto.
Lo scontro davanti a Verdun durò un anno; per questo Verdun è stata anche definita come una guerra nella guerra. Verdun è anche sinonimo di inferno: il soldato di Verdun si trovò immerso in un universo di sangue e di ferro generato da quella che i tedeschi definirono “guerra di materiali”.
I segnali su una possibile offensiva tedesca in grande stile nel settore di Verdun o comunque in un X punto delle linee francesi del Fronte Occidentale, furono tenuti segreti e sulla stampa niente trapelò non solo sul pericolo incombente, ma anche sulle denunce di uomini politici sotto le armi, il colonnello Driant (deputato della destra nel Parlamento francese), e le preoccupazioni di alcuni generali, Crethien, sullo stato disastroso delle difese nel settore di Verdun.
Dall’analisi delle riviste “Sur le vif”, “Panorama de la guerre” e “Le Miroir” si può desumere che la fotografia si rivelò un ottimo strumento per mostrare la sofferenza del soldato e la dimensione della devastazione del territorio circostante la città di Verdun. Agli illustratori fu invece affidato il compito di raccontare i momenti più cruenti di uno scontro che si protrasse per mesi, sino a concludersi con la riconquista francese di pochi chilometri quadrati, persi nei primi giorni dell’attacco tedesco. Il costo umano del massacro di Verdun è stato di recente ridimensionato, da circa un milione di morti si è passati a quasi settecentocinquantamila, tra francesi e tedeschi. Lo storico francese Jean Jaques Beker, a proposito dei grandi massacri del 1916 e del 1917 stabilisce con queste cifre il numero dei caduti: Verdun, 770.000 morti, in parti uguali tra francesi e tedeschi; la battaglia della Somme, 1.200.000 morti, in parti uguali tra tedeschi e alleati, in maggior parte britannici, Pachendaele (terza battaglia di Ypres), 450.000 morti, 200.000 tedeschi e 250.000 alleati, quasi esclusivamente britannici. (in Que sais-je, La Grande Guerre, di J.J. Beker, pag 40, 2004).
L’esito militare e politico della battaglia fu un fallimento per la Germania: i francesi non si dissanguarono, al contrario furono i tedeschi a subire i contraccolpi di un così lungo bagno di sangue. Con l’esaurimento della battaglia di Verdun, in Germania si manifestarono più evidenti i segnali di una crisi che sarebbe divenuta irreversibile.
Sur le vif è una rivista esclusivamente fotografica che nasce con lo scoppio della guerra e sembra avere meno ambizioni di Le Miroir, ma offre ai lettori immagini interessanti. Sur le vif pubblica fotografie e notizie da Verdun solo il 18 marzo e, quasi in controtendenza con Le Miroir e L’Illustration che offrono nelle prime settimane immagini di un combattimento immaginario, mostra sul numero dell’8 aprile due fotografie sulla condizione umana del soldato di Verdun.
La prima, di copertina, mostra un momento di sosta nella battaglia con due soldati a cui viene distribuito il pinard, il vino che serve per dissetarsi, scaldarsi, ubriacarsi e andare all’attacco in stato di ebbrezza.

Sur le vif, N° 74

Non c’è niente di retorico in questa foto rubata alla realtà quotidiana della guerra, ma ancor più realistica è l’immagine che chiude il numero di Sur le vif: riguarda gli uomini addetti alla corvée del trasporto di cibo per i soldati in prima linea. Nella fotografia non c’è nessuna retorica, nessuna voglia di mettere in posa i soggetti. Nemmeno un soldato guarda verso l’obbiettivo e le divise sono coperte di fango, come sembrano sporchi i secchi per la minestra. Uomini e cose appaiono come immersi in uno stato di profondo degrado. La didascalia non concede nulla alla retorica della guerra.
"Zuppi di pioggia, spossati, coperti di fango, gli uomini della corvée vengono a prendere il rancio per i poilus delle trincee di prima linea."

Sur le vif N° 78 dell’8 aprile 1916

Un’altra fotografia di grande realismo è una piccola immagine in ottava pagina per un servizio intitolato “autour de Verdun”. Un gruppo di soldati siede all’interno di una trincea, simile più ad un fossato provvisorio, e la didascalia non nasconde la sofferenza di questa gente.
"Calmi, i difensori della trincea avanzata sentono i proiettili fischiare sulle loro teste, mentre la pioggia ghiacciata cade loro sulle spalle."

Sur le vif, N° 76

Le fotografie di Sur le Vif riguardano non tanto il territorio devastato o luoghi che entreranno nella mitologia della battaglia, mostrano invece l’uomo coperto di fango e la fatica in una guerra che sempre più diventa simile ad una gigantesca macchina. C’è anche un tentativo di offrire al lettore la dinamicità del combattimento, sul numero 83 viene pubblicata una sequenza fotografica in cui si racconta l’incursione dei fanti francesi in una trincea tedesca e la cattura di una mitragliatrice.

Sur le vif, N° 83

Il dubbio sulla veridicità delle immagini con cui è stata composta la sequenza è forte, ma questo modo cinematografico di raccontare, oltre a mettere in risalto l’uomo che combatte senza atteggiamenti di particolare eroismo e compie la sua missione come se si trattasse di una quotidiana mansione di lavoro, va incontro alle aspettative dei lettori che vorrebbero sapere cosa realmente sta accadendo a Verdun e serve a dimostrare che l’esercito francese non è solo sulla difensiva.
In queste fotografie eseguite sul campo di battaglia o nelle retrovie di Verdun, non ci sono immagini particolarmente violente e dure.
Agli illustratori è affidato il compito di raccontare l’eroismo del soldato francese e il combattimento.
Sulla rivista Le panorama de la guerre, compaiono acquerelli e disegni sui quali i lettori possono vedere quanto sia dura e sanguinosa la lotta sulle colline attorno alla città. Confrontando queste ricostruzioni pittoriche con le testimonianze dei combattenti è possibile affermare che gli illustratori di Le Panoramà della guerre si comportarono in modo onesto, anche se l’eterna propensione alla retorica patriottarda non mancò.


Le Panorama de la guerre-3 illustrazioni

Il commento che accompagna l’illustrazione in cui l’ufficiale invita la truppa ad attaccare è un esempio di retorica e di falsità.
“…I Prussiani marciano sovente sotto l’imposizione dell’ingiuria o della minaccia del revolver, i Francesi non attendono che un gesto, un ordine cordiale, come qui a Douaumont, la parola che farà vibrare nel fondo l’antica nobiltà militare e della razza.”
Il titolo è: “Ragazzi miei, a voi l’onore di attaccare!”

domenica 23 gennaio 2011

Il Cimitero Militare di Redipuglia in un album fotografico degli anni Venti


Filo spinato
Non questi fili ruggine colora: del nostro sangue son vermigli ancora!

Questa didascalia accompagna una delle 45 fotografie pubblicate negli anni 20, in un album edito dall’Ufficio Centrale Cura e Onoranze Salme Caduti in Guerra e destinato al turismo cimiteriale, sorto anche in Italia negli anni immediatamente successivi la Grande Guerra.
La cappella votiva

Le didascalie di questo volumetto fotografico riproducono quelle dettate sulle targhe del primo cimitero di Redipuglia, dal commediografo Giovannino Antona Traversa, da Gabriele D’Annunzio e da altri intellettuali dell’epoca: Alfredo Pastonchi, Vittorio Locchi, Fausto Salvatori.
L’iscrizione è posta in un luogo che possiamo definire “autentico”.
La fotografia del filo spinato, come tutte le altre, venne eseguita dove si era conservata la traccia “reale e visibile” dei combattimenti che avevano opposto italiani ed austriaci.

Bombardieri
Tutte le batterie un solo ardore
Tutte le volontà un nervo istesso
D'Annunzio
L’album, formato 18x24, si apre con una piccola introduzione che racconta la storia del cimiteroa che raccoglie le spoglie di 30.000 caduti.
“E’ diviso in sette settori da viali che dal sommo della collina scendono diritti a raggiera lungo i suoi fianchi. Nei settori le Salme sono disposte in gironi concentrici che hanno in complesso uno sviluppo di oltre 22 km. Per scavare le fosse occorsero, durante quattro anni, 21.000 mine nella roccia viva. Nei primi due gironi, in alto gli Ufficiali: 465, fra cui 3 generali, negli altri i militari di truppa.
Solo 5860 tombe hanno un nome…Questo cimitero non somiglia a tutti gli altri, ma ha carattere militare. Qui non viali coperti di ghiaia, non alberi, non fiori, non verde né ombra, ma l’aspetto sassoso e brullo del Carso, con sterpi e ciuffi d’erba scolorata, e qualche rado arbusto dai fiorellini pallidi come quelli che, nelle assolate petraie, furono l’ultima visione dei morenti. Non, sulle tombe, i consueti simboli cristiani in legno o in cemento, ma tutti i cimeli di guerra diverso l’uno dall’altro. Sopra ogni tomba un’epigrafe o un verso, un motto, un pensiero: voci dei Morti e voci dei vivi.”
I criteri che avevano ispirato la creazione del cimitero intendevano offrire al visitatore o a chi avrebbe soltanto visto quest’album, un’immagine “totale” di quella che era stata la guerra sulle pendici del Carso.
Soldato ignoto
Che t'importa il mio nome? Grida al vento:
Fante d'Italia e morirò contento!
Le fotografie consentivano di vedere e conservare la documentazione non solo delle armi impiegate nelle battaglie, ma anche degli strumenti più moderni di comunicazione e organizzazione di un esercito nella guerra industriale: dal telefono al telegrafo, i grandi riflettori per illuminare la notte, la macchina da scrivere…

 Radiotelegrafia
Passò su queste antenne tutta la nostra storia
dal dì della riscossa
al dì della vittoria


Telefono da campo
Pronti!...Chi parla?...Dolina Amalia!...
E' presa cima 3!...Viva l'Italia!


Macchina da scrivere
Con le mie dita d'ombra sulla vecchia tastiera
Ignoto fante vigilo. C'è in alto una bandiera di luce.
O passeggero, ti sia nella memoria:
siamo ancor pronti a un fulgido messaggio di Vittoria
Fausto Salvatori

Riflettore
Dicea, marciando il fante: Ho, misera fiammella,
che solo a notte fonda mi rischiara in via!
A me perenne, vivida luce è la fede mia:
amor della mia terra, amor d'Italia bella!
L’idea di grande livello di organizzare un cimitero monumentale attraverso gli “oggetti” della guerra e in questo modo ricordare i caduti e lo sforzo dell’intera nazione, era stata del Colonnello Vincenzo Paladini e avrebbe consentito di conservare un documento di cultura materiale unico in Europa. La testimonianza di un tentativo di educazione nazionale.
Mussolini non amava cimiteri di questo tipo, in cui gli oggetti della sofferenza e della morte soverchiavano i simboli della vittoria e della presunta grandezza italiana.
Per questo le cose andarono diversamente.
Il Sacrario Militare di Redipuglia è oggi il più conosciuto e famoso cimitero militare italiano della Prima Guerra Mondiale.
L’immagine delle grandi terrazze a gradoni, la scritta “Presente”, i nomi delle migliaia di caduti, il marmo bianco e abbagliante richiamano l’epoca in cui venne inaugurato: il 18 settembre 1938.
Interno della cappella votiva
La promessa
Con monumenti come quello di Redipuglia, il fascismo celebrava il ricordo dei caduti nella guerra vittoriosa e insieme la sua origine: l’interventismo, il nazionalismo, i combattenti e la vittoria nel 1922 con la famosa frase di Mussolini sull’Italia di Vittorio Veneto che marciava su Roma e presentava il conto.
Era un continuum che si estendeva sino alla proclamazione dell’Impero e ai prossimi appuntamenti di guerra.
I caduti di Redipuglia, richiamati in vita con quel “presente”, porgevano la mano a tutti gli italiani alla vigilia di nuove imprese.
Non la sofferenza e la cruda realtà della guerra, mostrata simbolicamente dagli oggetti fotografati in quest’album, ma il mito dei caduti e degli eroi che alimentava l’idea del primato della nazione.
Alpini
A noi, Fanti del Carso, gloria è dormir vicini
ai puri Eroi dei monti, nostri fratelli Alpini!
Un sogno che sfumò ben presto e a Redipuglia rimase il marmo bianco: la grande distesa oggi divenuta l’immagine-ricordo monumentale più significativa e mistificante della Grande Guerra degli italiani.
Nelle altre nazioni le cose non andarono molto diversamente.
Ci fu, forse, una maggiore sobrietà e prevalse un’ispirazione che si rifaceva a quell’idea della “guerra che mette fine a tutte le guerre”, ma la monumentalità e la rivendicazione della vittoria occultarono i gravi errori nella conduzione della guerra e le menzogne sulle sue finalità che avevano contribuito a provocare un così alto numero di vittime.
Le fotografie mostrano la collina di Sant’Elia come un’altura che il visitatore percorreva per incontrare segni visibili e veritieri della tragedia della guerra di posizione.
Stufa da trincea
Perdono a te, che m'avvolgesti d'acre
fumo nei dì tremendi della bora!
Ora non servi più, perchè alle sacre
fiamme d'Italia mi riscaldo ognora
Nel volumetto, è non è un caso, la fotografia successiva a quella del filo spinato mostra una tenaglia appesa a un filo.
L’iscrizione così commenta: “Se fur vane le pinze, valsero i denti!”.
Pinze
Se fur vane le pinze, valsero i denti!
Qualcuno leggendo queste frasi non resisterà ad un sorriso, tanto è distante questo mondo da ciò che ci circonda. Ma dimentica che per comprendere la tragedia della Grande Guerra, è necessario ricostruire quel mondo e queste fotografie possono essere un utile aiuto.
Marmitta da campo
Un colpo, un grande schianto...e per quel dì
solo di fede il fante si nutrì!
Le frasi che leggiamo sull’album erano figlie di una cultura che aveva considerato la guerra come una potente medicina, una sorta di contro veleno per una società che si credeva inquinata da un progresso verso il quale si provava attrazione e paura e dall’entrata in campo di soggetti nuovi: le grandi masse turbolente e chiassose della civiltà urbana.
Questa cultura di guerra, fatta propria dalla maggioranza degli intellettuali italiani, con l’eccezione di Benedetto Croce, segnò profondamente la vita dei nostri nonni e bisnonni.
Per chi voglia comprendere il clima in cui il visitatore acquistò e sfogliò questo album, può utilizzare internet e digitare il sito dell’Istituto Luce per vedere un filmato datato 1924-1931 e intitolato “Redipuglia. Quindicimila lavoratori milanesi in pellegrinaggio al cimitero di guerra”.
Dura circa sette minuti e comprende riprese cinematografiche realizzate in momenti e anni diversi, si conclude con un discorso (il documento è muto) di Giuseppe Bottai, Ministro dell’Educazione Nazionale e uno dei principali congiurati il 25 luglio 1943.
I lavoratori in gita con le loro famiglie forse è la prima volta che si prendono una vacanza, sostano davanti ai cippi, osservano e commentano gli oggetti della guerra, le croci fatte con le schegge di bombe, affollano la cappella votiva, acquistano album ricordo e chiedono a Bottai l’autografo.
Splende il sole e sembra esserci una grande partecipazione attorno a ciò che il luogo rappresenta.
E la partecipazione non solo è accentuata dal fatto che molti dei visitatori hanno fatto la guerra e combattuto su quelle pendici oppure hanno perso delle persone care, ma anche perché il luogo è un vero e proprio museo a cielo aperto della guerra finita da pochi anni.
Allora gli oggetti della morte potevano essere visti e dovevano far riflettere poi tutto fu coperto dalla pietra bianca e avvolto nel silenzio.
Il Sacrario di Redipuglia oggi-per gentile concessione del Sig. Gianfranco Ialongo

Per chi voglia approfondire la tematica del ricordo della Grande Guerra nei Scrari militari e nei cimiteri, si consiglia la lettura dell'opera di George L. Mosse "Le guerre mondiali-Dalla tragedia al mito dei caduti"

domenica 9 gennaio 2011

In hoc signo vinces-cartoline di guerra

La cartolina nel corso della Prima Guerra Mondiale divenne lo strumento più immediato di comunicazione tra i soldati al fronte e le famiglie. Tra il 1914 e il 1918 vennero inviate milioni di cartoline illustrate pubblicate in tutte le nazioni in guerra; i messaggi visivi che contenevano erano un sofisticato strumento di comunicazione in cui venivano esaltati ed utilizzati gli affetti famigliari, la paura, l’erotismo, il coraggio e il sentimento religioso.
La tecnica utilizzata per veicolare il messaggio era l’associazione di più elementi al fine di costruire una piccola storia contenuta in un’unica immagine. Per molte cartoline illustrate veniva impiegato uno stile pittorico preso in prestito dalle illustrazioni pubblicate sulle riviste e nella cartellonistica pubblicitaria, ma quello che prevalse fu il fotomontaggio che durante la Grande Guerra rivelò potenzialità non ancora sperimentate per la comunicazione del messaggio visivo attraverso la tecnica dell’associazione fra elementi che colpivano l’immaginazione e l’inconscio.
Mio Dio proteggi il mio caro papà che si batte laggiù per la Francia


Il bagno interrotto
 L’immagine contenuta in una cartolina edita a Nizza riguarda il rapporto tra religione e guerra.
Il titolo “La France, soldat du Christ, aupres des nations” (la Francia, soldato di Cristo, accanto alle nazioni), esplicita quello che i francesi ritennero (illusoriamente) di essere tra il 1914 e il 1918: lo stato guida nella lotta contro la Germania, simbolo della barbarie.
L’immagine pubblicata a Nizza dall’editore Flussel, può essere divisa in due sezioni orizzontali: la prima terrena e molto concreta, con gli eserciti alleati che marciano verso la vittoria e le bandiere delle nazioni antitedesche spiegate al vento (ci sono anche i bersaglieri italiani), la seconda aerea e spirituale in cui sono compresi una serie di simboli dall’impatto molto forte in cui si mescolano insieme elementi antichi e moderni.
Nel cielo appaiono in sequenza l’immagine di Cristo con la croce, il motto costantiniano “in hoc signo vinces” tradotto con “par ce signe tu vaicras”, la chiesa di Montmartre, Giovanna d’Arco che sventola la bandiera con il sacro cuore e le macchine nuove della guerra industriale: dirigibili e aerei in un cielo offuscato da bombardamenti e combattimenti.
E’ il cielo che protegge gli eserciti del bene con i suoi simboli immortali, i santi e le macchine volanti benedette da Dio, la cui volontà si manifesterà prima o poi nella vittoria finale.
Non è un caso che un messaggio di questo tipo sia contenuto in una cartolina.
La guerra totale è una guerra di annientamento dell’avversario che per sua natura diventa sacra ed ha bisogno di un sostegno forte che solo la religione può offrire. Sostegno forte, ma con un messaggio molto semplice e con il quale l’identificazione è quasi automatica.
Nonostante l’appello di Papa Benedetto XV° contro “l’inutile strage” e i suoi tentativi per porre la Chiesa cattolica al di sopra delle parti, il coinvolgimento delle gerarchie ecclesiastiche nel sostegno alla causa di ogni nazione in guerra è ormai storicamente dimostrato.
Questo coinvolgimento avvenne nel quadro di un’Europa che stava vivendo inarrestabili processi di laicizzazione, ma che con la guerra vide una forte rinascita religiosa generata dall’incertezza per i futuro e dalla morte di milioni di uomini sui campi di battaglia.
Quando si comprese che un’intera generazione di europei rischiava di essere distrutta in una guerra di cui non si vedeva la fine, il risveglio religioso si manifestò sia al fronte che tra le popolazioni civili con forme che trassero alimento dall’antica tradizione cristiana dell’Europa.
Nel corso della Prima Guerra Mondiale la parola “sacro” venne impiegata per sostenere l’unità nazionale e il diritto ad ottenere le proprie rivendicazioni.
La parola d’ordine di “sacro egoismo” del capo del governo italiano Antonio Salandra fu coniata per sostenere le ragioni dell’intervento nella guerra mondiale, l’unione dei francesi contro l’aggressione tedesca divenne da subito “sacra”, le terre che si dovevano liberare dovevano essere “redente”.
Evviva le nostre terre redente
La religione della patria e della nazione utilizzava con la cartolina simboli di un passato in cui si era combattuta la lotta tra cristianità e paganesimo, sostituita in un secondo momento dalla battaglia contro l’espansione dell’Islam. Costantino, ispirato da una visione celeste e da un sogno, aveva messo sui suoi labari e vessilli la croce di Cristo e aveva vinto. Era il vecchio motto delle crociate che tornava attuale: quel “Dio è con noi!” urlato contro l’Islam ed ora contro gli Imperi Centrali, segno anche di una profonda frattura nella cultura europea.
Tieni, per te e la tua culltura!
Il cane che orina sull’elmo chiodato in una cartolina francese, rende manifesto il profondo disprezzo verso il nemico con aspetti totalizzanti di estremo rifiuto.
Io sono colui che dice: tu non continuerai ad uccidere
Cristo che avvolto in una luce luminosa sbarra la strada al Kaiser Guglielmo II, simboleggia il bastione invalicabile che impedisce la vittoria e la diffusione del male sulla terra.
Una cartolina italiana inviata nel dicembre 1915 riguarda il XVI° centenario costantiniano. L’immagine di tipo classico non presenta contenuti particolari, ma sul retro è stampato con inchiostro colorato il motto “Dio protegga la nostra cara Italia”.


Dio protegga la nostra cara Italia
In questo complesso gioco di messaggi cifrati e stimolazioni dei sentimenti più segreti dell’animo umano, gli intellettuali erano chiamati a prendere posizione in difesa degli interessi sacri delle nazioni in lotta.
Dalla riesumazione di questo armamentario del passato, utilizzato in forma moderna, si salvarono in pochissimi: tra questi il premio nobel per la letteratura Romain Rolland, il filosofo Bertrand Russel e lo scrittore tedesco Stefan Zweig.
Ma la loro voce non fu ascoltata e nel ventennio successivo l’utilizzo della radio e del cinematografo diede alla tecnica dei messaggi segreti racchiusi nelle semplici cartoline, un contenuto di aggressività mai conosciuto dalla storia umana. Oggi tutto questo è stato sostituito dalla televisione...e da internet.

Sulle tematiche del rapporto tra Grande Guerra e religione, si è ampiamente soffermata la storica francese della Prima Guerra Mondiale Annette Becker, nel saggio “Chiese e fervori religiosi” pubblicato in “La prima guerra mondiale” Vol. II, a cura di Stephane Audoin-Rouzeau e J. Jacques Becker, Edizioni Einaudi 2007. L’edizione italiana è stata curata da Atonio Gibelli.



giovedì 6 gennaio 2011

La guerra e il corpo-Terza parte

Le immagini tratte dall’album proveniente dall’ospedale di Lione e le lastre contenute nel fondo anonimo acquistato in Normandia, mostrano aspetti diversi e dolorosi nella cura delle ferite della guerra. I mutilati alle gambe e alle mani, gli sfigurati al volto, coloro che hanno perso gli occhi o la ragione sono la diretta conseguenza dello straordinario sviluppo degli armamenti impiegati durante la Prima Guerra Mondiale. La mai conosciuta capacità di distruzione delle artiglierie e in genere degli esplosivi, è responsabile del maggior numero di caduti nel corso della guerra. Se nelle fotografie provenienti dagli ospedali possiamo vedere il tentativo di ridare al vita, in quelle provenienti più direttamente dal fronte vediamo invece la morte nel suo aspetto più crudele: la distruzione completa del corpo.

E’ il caso di una stereoscopia compresa in un gruppo di fotografie che all’origine dovevano appartenere ad ad una serie più vasta.
Di autore ( o autori ) anonimo, questa serie di immagini accompagnate da didascalie, erano destinate alla vendita e non recano alcuna traccia di edizione. Un di esse potrebbe essere stata eseguita a Verdun, nei mesi della battaglia o immediatamente dopo la riconquista francese del territorio perso in seguito all'offensiva tedesca. Nella didascalia si può leggere che si tratta di un “Entonnoir produit par une des nos mines. Un corps reste attaché à un élément de fil barbelé.”
Il terreno sconvolto appare come un deserto e il corpo del soldato (di cui non si indica la nazionalità) è qualcosa di indistinto, mischiato a brandelli di strutture metalliche.



Questa stereoscopia, se non ci fosse la didascalia a spiegarci che si tratta di un paesaggio di guerra, potrebbe indurre un occhio non abituato a riconoscere le immagini della Prima Guerra Mondiale a pensare che la fotografia riguardi un luogo qualunque in cui sono rimasti dei rifiuti, oppure i resti di qualche lavoro eseguito in precedenza. Siamo di fronte ad un’immagine che mostra la più assoluta disumanizzazione della morte: il corpo umano è ridotto ad un indistinto brandello di carne.


Un altro aspetto della disumanizzazione della morte nel corso della Prima Guerra Mondiale, è la messa in scena. Sin dall’inizio si era compreso che con la fotografia potevano essere fabbricati veri e propri falsi. Per sopperire ai limiti tecnologici del mezzo che non consentiva di riprendere delle istantanee, un avvenimento veniva ricostruito a posteriori. Gran parte delle immagini delle guerre nella seconda metà dell’Ottocento e la grande maggioranza di quelle eseguite durante la Prima Guerra Mondiale, sono ricostruzioni di fatti avvenuti in precedenza. Lo stesso “album di Edmond” che mostra in mondo assai didascalico i diversi aspetti della guerra di trincea nel settore belga nei pressi di Dixmude, contiene fotografie in cui vengono simulati momenti di guerra vera. Alla simulazione va aggiunta la caricatura. Se mostrare il corpo del nemico ucciso equivale ad esibire una sorta di trofeo, mostrarlo in un atteggiamento curioso e strano aggiunge disprezzo verso colui che nella guerra totale si ritiene portatore assoluto del male.
Sempre nello stesso gruppo di immagini, troviamo un’altra stereoscopia accompagnata dalla seguente didascalia: “Verdun. Un boche mort a conservé une attitude de vivant.”


Al posto dello spettacolo con un corpo di cui è rimasto solo un brandello di carne attaccato ad un pezzo di filo spinato, qui il corpo c’è e a prima vista sembra quello di una persona viva. Probabilmente frutto di una messa in scena, il tedesco ucciso e la sua posizione suggeriscono l’idea che il soldato stia osservando l’ora della sua morte. Un’ora che prima o poi arriverà per tutti i nemici. In questo caso il corpo del nemico ucciso non è usato soltanto come un trofeo da esibire, ma diventa oggetto di scherzo. Al posto della pietà, questa immagine evoca qualcosa di morboso e sinistro. C’è in essa una sorta di gusto necrofilo che si ricollega ad un’immagine più antica che fa parte della cultura e dell’immaginario europeo: gli affreschi della danza macabra, dipinti dopo le grandi pestilenze. Ma in questo caso la morte non è l’elemento di riequilibrio e di riparazione dei torti nell’eguaglianza tra potenti e sottomessi, poveri e ricchi, ma un elemento accattivante di gioco, dato in pasto ad un pubblico sottoposto ad un continuo stato di eccitazione e che ormai si è abituato ad acquistare spettacoli di gran lunga più cruenti. Il gioco sulla morte è ormai una piccola immagine che si compra insieme a quelle di rovine, cannoni potenti e sfilate. La danza della morte non fa più paura a nessuno, ormai è immagine fotografica che si vende e si acquista a buon mercato.


Il fatto che queste immagini fossero destinate alla vendita nel corso della guerra o negli anni successivi al 1918, è sintomatico di quella banalizzazione della morte che lo storico George Mosse ( Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti. Ed. Laterza) ha individuato nella produzione di differenti tipi di immagini fabbricate e vendute nel corso della Grande Guerra e che avrà molta influenza nel determinare un clima di abitudine alla violenza in cui si produrranno i presupposti culturali degli orrori del Secondo Conflitto Mondiale.