mercoledì 22 giugno 2011

La fotografia e la rivoluzione Seconda parte



Morte in diretta di un agitatore

All’indomani della rivoluzione del febbraio 1917 che abbatte il regime dei Romanov e proclama la repubblica, una delle questioni all’ordine del giorno è cosa fare della guerra in corso che Nicola II ha contribuito a far esplodere.


Cosacchi con elmi di prussiani infilati nelle lance, da Panorama de la Guerre, 1914



L’esercito russo dal 1914 ha pagato un duro prezzo alla guerra: male armato, mal diretto e gravato da una disciplina umiliante per i soldati, ha collezionato numerose sconfitte e qualche vittoria. I caduti si conteranno in 1.700.000.
Con la fine dello zarismo i soldati-contadini si delineano come un interlocutore di cui si deve tenere conto, innanzitutto perché sono armati e poi perché chiedono una cosa ben precisa: la fine della guerra.
Il “governo provvisorio” egemonizzato dai settori dell’opposizione liberaldemocratica che si è opposta molto cautamente all’autocrazia dello zar, intende proseguire la guerra, riportare l’ordine nel paese e convocare un’assemblea costituente che si pronuncerà sulle più importanti riforme sociali.
E intanto in tutto il paese i soviet (consigli) dei soldati, degli operai e dei contadini crescono in modo spontaneo e si caratterizzano come un vero e proprio contropotere che fa la “sua” rivoluzione nelle fabbriche, nelle campagne e al fronte. Il soviet di Pietrogrado è quello più importante e al suo interno la sinistra russa gioca un ruolo decisivo.
Lenin, tornato in Russia dalla Svizzera con il benestare dei tedeschi, con le Tesi di Aprile pone ai bolscevichi la questione del superamento della rivoluzione borghese, della pace subito e della trasformazione della guerra imperialista in guerra rivoluzionaria mondiale. Almeno per quel che riguarda la Russia, Lenin ha capito che la questione della pace è fondamentale e sul suo conseguimento si giocheranno le sorti dell’immenso paese e della rivoluzione.
Il tentativo del socialista rivoluzionario Kerensky, prima ministro della guerra e poi capo del governo, di tenere agganciata la Russia alle potenze dell’Intesa in modo che una vittoria sulla Germania neutralizzi le posizioni dei bolscevichi e renda più forti quelle dei partiti riformisti e costituzionali, fallisce.
Nel luglio del 1917 i russi scatenano l’ultima offensiva contro le armate tedesche e austroungariche: non solo si risolve in una disfatta, ma vede l’esercito sbandarsi e intere divisioni darsi alla fuga. In tutto questo l’agitazione bolscevica è determinate.
Le Miroir N° 195 del 19 agosto del 1917


Su Kerensky convergono le speranze degli alleati dell’Intesa, il numero 195 di Le Miroir del 19 agosto 1917, quando il fallimento dell’ultima offensiva russa si è già consumato, pubblica una pagina con un montaggio fotografico che vorrebbe accreditare la fiducia dei soldati nel capo del governo russo. Il titolo è “Kerensky rivolgendosi al popolo e all’esercito” e la didascalia è preceduta da altri due titoli: “I sodati che ascoltano religiosamente l’oratore” e “Due atteggiamenti di Kerensky”.
“Kerensky che in un momento di scoraggiamento aveva offerto le sue dimissioni, si è ripreso con fervore nel suo ruolo di patriota e di apostolo. Colpito gravemente da un male che perdona raramente, Kerensky sa che il tempo per lui è contato e per questo si impegna a galvanizzare le energie per salvare la Russia. Esercita sulle folle un’influenza irresistibile che però, purtroppo, non sempre durevole. A Odessa, dei soldati ascoltano un suo discorso.”
La defezione dei soldati russi fa paura, potrebbe essere un esempio per eserciti stanchi di combattere una guerra di cui non si vede l’esito e non si capiscono più le finalità.
Sul numero 202 del 7ottobre 1917, due fotografie ci mostrano l'uccisione di un agitatore bolscevico da parte di un ufficiale del contingente francese che insieme a quello inglese e belga è presente sul fronte russo.
Il titolo del servizio è L'exécution d'un traître sur le front russe: nella didascalia non si precisa la località in cui è avvenuto l'episodio, ma in una serie di fotografie pubblicate su L’Illustration è possibile vedere ufficiali inglesi intervenire direttamente nel tentativo di fermare la fuga dei soldati sulla linea del fronte.



Le Miroir N° 202 del 7 ottobre 1917



L'unica informazione che accompagna la sequenza fotografica pubblicata da Le Miroir, è il nome dell'agitatore bolscevico ucciso: si chiamava Kornivalof e predicava la diserzione. Così la didascalia di Le Miroir descrive la sequenza fotografica che può essere definita anche un esempio di morte in diretta.
"C’è voluta tutta l’energia di un ufficiale per impedire che si arrendano al nemico. Dopo l’interrogatorio Kornivalof fu giustiziato. Alla sua divisa fu attaccato un foglio con scritte queste parole –traditore del suo paese- Il cadavere fu abbandonato sulla strada e lasciato come esempio ai soldati partigiani di Lenin."
Le due fotografie non hanno niente di straordinario, ma sono un piccolo reportage di grande significato simbolico. La loro pubblicazione è rivolta al fronte interno per mettere in guardia i soldati francesi dall'aderire al messaggio bolscevico. Siamo all'indomani degli ammutinamenti dopo il fallimento dell'offensiva Nivelle sullo Chamin-des-Dames e, pur parlando dei russi, le immagini del numero 202 sono un messaggio per tutti i francesi. Il bolscevico reale o potenziale, russo o francese che sia, vuole trasformare la guerra in rivoluzione mondiale. E' questo il nuovo nemico di ogni singolo paese impegnato nel conflitto mondiale. E non è un caso che in Italia la responsabilità del disastro di Caporetto sarà addossata ai disfattisti, i socialisti e i neutralisti che non avevano voluto la guerra.

lunedì 13 giugno 2011

1917 La fotografia e la rivoluzione Prima parte


Premessa
Iniziamo una serie di post dedicati al rapporto tra la fotografia e la rivoluzione nel corso della Prima Guerra Mondiale e all’indomani del 1918.
La rivoluzioni che avvennero durante la guerra, furono quelle irlandese e russa. Nel 1916 a Dublino l’insurrezione indipendentista fu stroncata dagli inglesi, in Russia invece la rivoluzione abbatté lo zarismo ed ebbe esiti assolutamente imprevisti.
Il 1917 divenne l’anno fatale per la dinastia dei Romanov: cadde quasi senza colpo ferire, dopo trecento anni di dominio autocratico su un’ impero dalle dimensioni immense.


Le Miroir N° 174 del 25 marzo 1917, fotografia di copertina in cui si annuncia l’abdicazione dello Zar Nicola II Romanov.



Questa è l’ultima fotografia che mostra lo zar Nicola II, insieme a suo figlio e nell’esercizio delle sue funzioni. Contemporaneamente viene data la notizia del rovesciamento della monarchia. La didascalia si limita a comunicare che: "A la suite d'un mouvement révolutionnaire, le Tzar Nicola II a dû abdiquer."
Gli avvenimenti russi con le due rivoluzioni, democratica prima e bolscevica poi, suscitarono grandi preoccupazioni nei governi dell’Intesa ed entusiasmo, in particolare nella classe operaia, nei popoli che erano stanchi della guerra. Per questo vennero seguiti con grande attenzione.
Cercheremo di pubblicare alcune fotografie significative, a nostro giudizio, e che mettono in risalto due aspetti del problema: a) un avvenimento sconvolgente che attraverso la fotografia viene conosciuto nella sua progressione temporale; b) l’immagine particolare che si forma nel corso del tempo, cioè quella di un “nemico nuovo”, diverso dai tedeschi e dagli austroungarici perché avverso alle logiche che avevano portato all’esplosione del conflitto mondiale.
Il maggior punto di riferimento iconografico sarà la rivista Le Miroir, offre un quadro vasto degli avvenimenti russi e nel modo di presentare le fotografie rispecchia le due questioni a cui abbiamo accennato sopra.
Lo storico italiano della fotografia Italo Zannier, citando un altro storico italiano, Wladimiro Settimelli (L’avventurosa storia della fotografia, Fotografare, Roma, 1969), così scrive nel primo numero della rivista Fotologia (Giugno 1984):
“Se si escludono le rivolte indiana (Lucknow, 1857) e cinese (Fort Taku, 1860), dove operarono Felix Beato e James Robertson, o quella messicana del 1867, in Europa “la prima rivoluzione immortalata dalla fotografia”, scrive Settimelli, è stata certamente quella francese del 1871, che vide impegnati da entrambe le parti un notevole numero di fotografi, di cui spesso non si conosce il nome.”
La rivoluzione del 1871 a cui Zannier si riferisce, è nota sotto il nome di La Comune di Parigi. In seguito alla sconfitta di Sedan nel 1870 e al crollo della Francia davanti alle armate prussiane, a Parigi fu proclamato un governo rivoluzionario di ispirazione socialista. A Versailles si insediò invece un governo presieduto dal liberale Adolphe Thiers che decise di stroncare l’insurrezione parigina con ogni mezzo. Le truppe del Governo di Versailles soffocarono nel sangue la Comune di Parigi in un vero e proprio massacro di massa. La fotografia ebbe un ruolo importante per criminalizzare gli autori della rivolta, i comunardi, e per pubblicizzare gli orrori della rivoluzione, ad esempio gli edifici storici distrutti negli incendi. A questa operazione collaborarono numerosi fotografi, alcuni già noti a quell’epoca: P. Petit, E. Appert, E. Disderi, B. Braquehais, H.A. Collard, Numa Fils. La stessa operazione si ripeterà quando i bolscevichi assumeranno il potere nell’ottobre del 1917

(per una più approfondita analisi del rapporto tra la fotografia e gli avvenimenti della Comune, si consiglia la lettura di “La Commune photographiée” AA.VV. Catalogo della mostra tenuta al Musée d’Orsay dal 14 marzo all’11 giugno del 2000)

L'associazione fotografia-propaganda ideologica si stabilì in modo esplicito con la Comune di Parigi, in una sorta di vendetta mediatica per un pubblico depresso, ma affamato di notizie. Un esempio di questo modo di fruire della fotografia, è un’immagine eseguita negli anni immediatamente successivi la guerra franco-prussiana del 1870 e certamente compresa in una serie più vasta. In questa fotografia si ricostruisce con figuranti e una carrozza, la fuga dell’Imperatrice Isabella dalle Tuileries, il 4 settembre 1870. Purtroppo lo stato di conservazione non è buono, ma è possibile distinguere molto bene il quadro d’insieme dell’ultimo saluto dell’imperatrice mentre i suoi accompagnatori la invitano a fare in fretta e allontanarsi dalla capitale. Il popolo è sceso in piazza, chiede la fine del regime di Napoleone III e la proclamazione della repubblica.


L’imperatrice Eugenia lascia Les Tuileriès il 4 settembre 1870, Studio Flamart, Parigi, albumina, 1875-1880



Bisogna ricordare un altro aspetto importante nel rapporto tra la fotografia e la rivoluzione dei comunardi. Nel 1871 le fotografie eseguite dal fotografo Appert erano servite ad individuare ed arrestare i comunardi sfuggiti ai massacri della “settimana di sangue” di Parigi. L’uso della fotografia ai fini di un’identificazione giudiziaria fu proseguito dall’antropologo Alphonse Bertillon ( 1853-1914) che elaborò un vero e proprio sistema di classificazione attraverso ritratti frontali e di profilo. Questo sistema venne adottato nel 1888 dal Servizio d’identità giudiziaria, di cui Bertillon era il direttore. In seguito il sistema Bertillon venne perfezionato con l’aggiunta di una serie di dati che descrivevano le caratteristiche di una persona secondo i criteri dell’antropologia criminale, in voga alla fine del XIX° secolo: era il “ritratto parlante” di Bertillon.

Russia 1917
Sul numero 199, Le Miroir del 16 settembre del 1917 ci permette di osservare e di analizzare un’immagine fotografica (ma forse la fotografia è tratta di uno spezzone cinematografico) entrata a pieno titolo nella storia del Ventesimo secolo.


Le Miroir N° 199, 16 settembre 1917



La folla, protagonista dei nuovi tempi, fugge in un grande crocevia di Pietrogrado sotto i colpi delle armi da fuoco e delle mitragliatrici. Gente che cade ferita, qualcuno si sdraia sul selciato cercando di ripararsi, molti fuggono, una madre tenta di proteggere suo figlio e quasi al centro del crocevia un uomo, forse un marinaio, si guarda attorno. Nella didascalia Le Miroir indica questa folla impazzita come vittima della violenza bolscevica, è probabile che si tratti del contrario. La manifestazione armata, un tentativo insurrezionale organizzato da soldati ed operai tra cui erano forti i bolscevichi (Lenin però non era d’accordo perché considerava prematuri i tempi), venne repressa da cosacchi e truppe fedeli al governo provvisorio che andava sempre più alla ricerca di un uomo forte e in grado di riportare ordine nell'esercito, continuare la guerra contro la Germania e bloccare la rivoluzione sociale. Una mistificazione di Le Miroir? Non sarebbe la prima volta che una fotografia viene utilizzata per affermare una tesi opposta a quella che l'immagine attesta. Ma, a parte questa considerazione, la fotografia che Le Miroir pubblica a pagina 8 e 9 del numero 199, può essere considerata uno dei simboli della violenza sociale e politica generata dalla Grande Guerra. L’inaudita violenza della Grande Guerra partorisce la rivoluzione e la controrivoluzione, il luogo di questo nuovo conflitto è la città, anzi la metropoli urbana: questa fotografia è la sintesi di una nuova fase storica che si apre nel 1917. L'anonimo fotografo o operatore cinematografico ha compiuto, con la ripresa di questo formicaio impazzito in un incrocio nevralgico di San Pietroburgo, una sorta di moderno miracolo. Ha creato un punto di riferimento visuale per la storia di un secolo intero. In un numero precedente, il 197, Le Miroir aveva pubblicato una fotografia riprodotta in grande formato con i funerali dei cosacchi leali al governo provvisorio presieduto da Kerenski. Nelle didascalie di queste due fotografie si insiste molto sulla violenza dei “massimalisti” capeggiati da Lenin.
Le Miroir N° 197 del 2 settembre 1917









mercoledì 1 giugno 2011

“In piedi! Morti!” I caduti e la Grande Guerra Terza Parte

Alla fine della Grande Guerra prevalsero atteggiamenti diversi rispetto ai caduti: ad esempio nella nuova Repubblica Socialista Sovietica vennero completamente dimenticati, sia per il protrarsi della violenta guerra civile sia perché nell’edificazione dello stato socialista si voleva cancellare il passato zarista. Quella guerra che era costata ai russi 1.700.000 caduti, non era mai esistita.
Per la prima volta nella storia e grazie alla fotografia e al cinematografo, la guerra era stata vista da un pubblico di europei numeroso che aveva potuto assistere a battaglie (nella maggioranza dei casi ricostruite nelle retrovie o in apposite fiction) e vedere fotografie che mostravano i soldati uccisi.
L’immagine offrì il suo contributo alla presa di coscienza di cosa era veramente accaduto nella guerra mondiale, nel 1919 sulla rivista “Le Miroir” apparve una ricostruzione grafica del prezzo pagato dalle nazioni.
Il computo dei morti era stato eseguito dal maresciallo March, capo dello Stato Maggiore dell’Esercito Americano

Le Miroir, 1919



Su diverse riviste, tra cui l’italiana La Domenica del Corriere, nel corso del conflitto apparve una forma di visione particolare e assolutamente fotografica del culto dei caduti e degli eroi. Una serie di fotografie, tutte uguali e tratte dal formato carte de visite, mostravano su una o più pagine i volti di ufficiali e soldati che erano morti eroicamente per la nazione.

La Domenica del Corriere, 27 febbraio-5 marzo 1916



Questi album degli eroi anticipavano i lunghi elenchi incisi nella pietra dei monumenti ai caduti.
I cimiteri militari sorsero dove gli uomini erano morti: gli inglesi e gli americani scelsero di lasciare i loro caduti sulla terra francese e la Francia donò piccole parti della sua terra alle nazioni alleate. Anche i tedeschi vennero sepolti sul territorio francese e radunati in grandi cimiteri. Questa soluzione fu dettata anche da motivi economici: riportare in patria milioni di corpi e resti umani, avrebbe comportato una spesa troppo ingente per le esauste finanze di vincitori e vinti.
Anche sul fronte italo-austriaco, la scelta fu quella di costruire i cimiteri dove si erano svolte le battaglie. Sorse in questo modo una nuova immagine della Prima Guerra Mondiale, non pittorica, non fotografica, ma litica.
La pietra e il marmo divennero elementi visibili e materiali per ricordare il massacro avvenuto tra il 1914 e il 1918. Visitando questi luoghi era possibile vedere la sofferenza, il sacrificio e l’impegno trasfigurati in simboli affinché quella guerra fosse sul serio l’ultima delle guerre e un monito per il futuro. Attorno a tutto questo sorse un giro d’affari colossale che coinvolse l’industria della pietra, delle onoranze funebri e quella turistica. Il turismo di guerra si affermò come un fenomeno nuovo, ricco di significati simbolici e in qualche modo vantaggioso per i luoghi dove si era combattuto e che all’indomani delle ostilità si presentavano come deserti ancora fumanti.
Vennero pubblicati opuscoli e guide in cui l’immagine fotografica era centrale per comunicare il messaggio emotivo alle famiglie dei caduti o ai semplici visitatori.
Il villaggio francese di Suippe, teatro di aspre battaglie nel 1915, fu illustrato con un depliant fotografico contenente 10 cartoline staccabili che comprendevano anche le immagini del cimitero militare.


Album turistico di Somme-Suippe, anni 1920/1930



Un altro esempio di turismo di guerra è offerto dalle guide del Touring Club Italiano che pubblicò una serie di volumetti dal titolo “Sui campi di battaglia”. Contenevano storia regionale e militare, itinerari, fotografie dei luoghi in cui si erano svolte le battaglie, dei monumenti eretti sulle montagne e dei cimiteri.


Sui campi di battaglia: Il Cadore, La Carnia, L’alto Isonzo, 1938




Sui campi di battaglia del Medio e Basso Isonzo: Il cimitero degli Asfissiati, 1928



La rivista “L’Illustrazione Italiana” pubblicò una serie di servizi in cui venivano mostrati i progetti per la costruzione di importanti monumenti ai caduti delle maggiori città italiane. A tutto questo si devono aggiungere numerosi reportage fotografici in occasione di ricorrenze e inaugurazioni.

L’Illustrazione Italiana del 13 giugno 1926, particolari del progetto per il Monumento ai Caduti di Milano presentato da Castiglioni



Si cementava attorno ai caduti, la religione della patria che aveva visto durante la guerra mondiale l’apice del suo culto.
I monumenti ai caduti e la complessa organizzazione che era sorta attorno ad essi, si caricava di valenze diverse e in qualche modo anche opposte: per alcuni i monumenti erano un segno di riflessione e di speranza per un’umanità finalmente pacificata, per altri era un modo di ricordare ai vivi che quei morti li impegnavano a difendere i singoli interessi nazionali ogni qual volta fossero stati offesi e calpestati.
C’era anche un altro elemento di grande significato nei monumenti: se tanti uomini erano morti per un mondo nuovo e tutto ritornava come e peggio di prima della guerra, a cosa era valso il tanto sangue versato?
Se i morti aleggiavano sui vivi, se li sovrastavano, allora era possibile che tornassero a chiedere conto di ciò che era accaduto e stava accadendo. L’immensa legione dei morti in guerra poteva ritornare per riaggiustare i torti commessi da chi aveva approfittato dell’immenso sacrificio.
Angosce antiche e nuove si fondevano con elementi di fantasia apocalittica: avevano alimentato una parte della cultura europea precedente la guerra e si sarebbero trasformati in un nuovo tipo di letteratura popolare, quella dell’horror e della fantascienza apocalittica.
I romanzi di H.G. Wells “La guerra dei mondi” e “La guerra dell’aria” non avevano anticipato la guerra totale e la moderna tecnologia degli armamenti?
In Francia un romanzo divenne famoso: “Le réveil des morts” di Roland Dorgeles.


Le revèil des morts di Roland Dorgeles, Ed. Albin Michel, 1923



Era la storia di una disillusione in cui il protagonista, Jacques, ingegnere ex combattente, impegnato nella ricostruzione dei villaggi attorno alla città di Soissons, si rendeva conto che la guerra non era servita a niente: tornavano l’egoismo, l’ipocrisia, l’affarismo, l’ingiustizia. Nel capitolo finale del romanzo Jacques, dopo aver abbandonato la moglie Helène che aveva ingannato il primo marito caduto in guerra (c’era in questo un elemento di misoginia che colpevolizzava le donne per la loro voglia di tornare a vivere), sognava ad occhi aperti il ritorno dei morti che sollevandosi dalle loro tombe invadevano villaggi e città, raggiungevano Parigi e occupavano il Parlamento imponendo una nuova legge di giustizia che scacciava i mercanti dal tempio.
Al romanzo di Dorgeles si aggiunse nel 1937 una nuova edizione del film di Abel Gange, “J’accuse”*. Il regista francese questa volta faceva evocare il ritorno dei morti da un ex combattente che aveva voluto restare nelle vicinanze di Verdun dove erano caduti tutti i componenti della sua squadra: i morti di tutti gli eserciti si sollevavano e marciavano per fermare lo scoppio di una nuova guerra. Alla realizzazione del film diede il suo attivo contributo l’associazione dei “gueules casseées” con la partecipazione di veri sfigurati che apparivano nelle ultime e apocalittiche sequenze finali in cui si sfruttava come elemento scenografico la torre lanterna del cimitero di Fleury sur Douaumont, a Verdun.
Fotografia, letteratura e cinema contribuirono nei vent’anni che intercorsero tra le due guerre mondiali alla formazione del mito dei caduti e fu certamente la diffusione di fotografie mai viste prima di allora a far dissolvere quel velo di eroismo che aveva avvolto il ricordo delle guerre precedenti.
L’evocazione letteraria della guerra di trincea era resa palpabile dalle fotografie eseguite al termine dei combattimenti o da film come “All’Ovest niente di nuovo” di Millestone o “Les croix de bois” di Raymond Bernard. Il cinema raccontava con l’immagine cosa avevano realmente vissuto i soldati.
Il mito dei caduti non sarebbe sopravvissuto nel secondo dopoguerra. Al termine della Seconda Guerra Mondiale le vittime civili erano di gran lunga superiori a quelle militari e i monumenti costruiti tra il 1918 e il 1939 dovevano essere una tappa verso il raggiungimento della pace sulla Terra: un cammino difficile, percorso ogni giorno inciampando in nuovi conflitti, massacri e crisi umanitarie. Dovevano passare almeno vent’anni prima che gli storici cominciassero ad occuparsi del significato culturale delle tematiche legate al mito dei caduti dalla Prima Guerra Mondiale.

*Un film con lo stesso titolo era stato realizzato nel 1917, sempre da Abel Gange. Al film avevano partecipato veri soldati in convalescenza (alcuni di essi sarebbero morti una volta tornati al fronte) e due intellettuali a quell'epoca noti: Guillame Apollinaire e Blaise Cendrars