Pogrom
Il 14 febbraio del 1915, sul numero 64 di Le Miroir comparve un servizio fotografico su due pagine e riguardante i crimini commessi dai tedeschi nella città polacca di Lodz.
Venivano mostrate quattro fotografie con donne e bambini uccisi (purtroppo al numero della rivista in nostro possesso manca una pagina e abbiamo a disposizione solo due fotografie); dal modo di vestire di coloro che sono accanto alle vittime, s’intuisce che si tratta di ebrei.
Secondo la rivista francese saremmo di fronte ad immagini di un pogrom compiuto dai tedeschi a danno delle popolazioni ebraiche della Polonia, sull’esempio di quelli organizzati nella Russia zarista.
Le Miroir 14 febbraio 1915, N° 64 |
Così commentava Le Miroir:
“Come in Belgio e in Francia i campioni della kultur hanno dato agli abitanti della Polonia russa un’idea esatta della dominazione tedesca. Questo documenti che vengono dopo quelli già da noi pubblicati sulla Serbia, non hanno bisogno di parole. Le fotografie sono state eseguite a Lodz dopo che il nemico era stato sconfitto e si ritirava. Si può notare, nella seconda fotografia, che gli spettatori della scena atroce, d’istinto si tengono per mano per conservare il sangue freddo e non fuggire.”
Le Miroir 14 febbraio 1915, N° 64 |
Il pogrom antiebraico mostrato dalle fotografie, c’era stato sul serio, ma non in Polonia, bensì in Russia, ad Odessa nel 1905. Le fotografie erano state eseguite nelle strade del grande porto sul Mar Nero, al termine di un massacro scatenato con l’appoggio della polizia zarista e che aveva provocato più di trecento vittime.
Il servizio fotografico di Le Miroir era quindi un falso teso a convincere, se ce ne fosse stato ancora bisogno, che i tedeschi erano barbari. La verità venne dimostrata dalla rivista tedesca Illustrierter Kriegs-Kurrier che diffuse, anche al di fuori della Germania, le informazioni sulle vere circostanze in cui le fotografie erano state realizzate.
Questa informazione l’abbiamo appresa consultando il catalogo della mostra “Dead lines - orlog, media en propaganda in de 20stee eeuw”, un evento di grande importanza per lo studio del rapporto tra comunicazione e guerra, organizzato dall’ In Flanders Fields Museum di Ypres nel 2002.
Dal catalogo della Mostra Dead Lines, pag. 19 |
La vicenda ha in se qualcosa di atroce.
Quasi 20 anni dopo il 1915, in Polonia e negli altri territori occupati dalle armate di Hitler, i tedeschi organizzarono pogrom dello stesso tipo di quello compiuto ad Odessa nel 1905, ma ancor più sanguinosi. Valga per tutti quello avvenuto a Lvow, antica città della Galizia e importante centro di cultura ebraica, il 2 e 3 luglio del 1941 che provocò 7000 morti in due giorni.
[Esiste un filmato eseguito probabilmente da un cineoperatore dilettante tedesco in cui vengono riprese donne e uomini di razza ebraica che subiscono violenze da parte degli ucraini. Sono scene che inchiodano alle loro responsabilità non solo i nazisti, ma anche gli antisemiti e collaborazionisti ucraini che già in passato avevano compiuto stragi del genere. Questo filmato è stato spesso montato in sequenza con altre immagini riguardanti momenti diversi dello sterminio degli ebrei. Per l’esattezza, le immagini di Lvow si riferiscono alla prima fase sterminio, seguita all’attacco contro l’Unione Sovietica nel 1941. Questo filmato esiste su youtube e se ne consiglia la visione per un pubblico informato sulle diverse fasi dell’assassino di più di 6 milioni di ebrei. Le immagini sono molto crude e vanno osservate come un documento importante per la storia dell’umanità e in particolare per quella del Novecento. ]
Nel 1915 in Polonia gli ambienti ebraici, intellettuali e classi agiate, attendevano i tedeschi quasi come dei liberatori dall’oppressione zarista.
Lo testimoniano questi brani tratti del romanzo “La famiglia Moskat”, di Isaac Bashevis Singer, Premio Nobel per la letteratura nel 1978.
“…era bello passare il tempo in mezzo ai libri, alle carte, ai mappamondi, alle sculture d’arte, parlare con i clienti di Klopstock, di Goethe, di Schiller, di Heine. Fin da quando i tedeschi avevano iniziato la loro avanzata verso Varsavia, in città si respirava una certa atmosfera occidentale…-Bronya, amore mio,-diceva Nyunie,-presto ci troveremo all’estero senza nemmeno scomodarci ad attraversare il confine.-…Al mattino fu svegliato da uno squillo del telefono. Era Nyunie. Balbettava:-Abram, m-m-mmazal tov! I tedeschi sono a-a-arrivati! Siamo in P-P-Prussia adesso? -Urrà! Viva! Potztausens!-gridò gioiosamente Abram.-Dove sei, stupidone mio? Andiamo a festeggiare gli unni!”
(da La famiglia Moskat, di Isaac Bashevis Singer, Ed.Tea Due, 1992, pag. 367)
Siamo di fronte ad un completo e perverso rovesciamento della storia: il falso fotografico di Le Miroir, il fatto che i tedeschi solo pochi anni più tardi avrebbero commesso gli stessi crimini che a loro venivano imputati nel 1915, il diverso atteggiamento nei confronti dei tedeschi delle popolazioni ebraiche nel corso della Prima Guerra Mondiale.
Con la Grande Guerra avviene una mutazione culturale profonda: il nemico è demonizzato in nome della religione della nazione e per questo non ci sono scrupoli nella pubblicazione di fotografie non veritiere, tese a dimostrare l’assoluta disumanità del nemico. Le due fotografie che siamo in grado di mostrare sono terribili, eseguite nel 1905 anticipano il futuro: i cadaveri allineati e distesi in terra, i bambini uccisi, lo sguardo carico di rabbia dei giovani ebrei, ma impotente dinnanzi a una secolare violenza.
C’è in esse non solo un’anticipazione di Auschwitz, ma anche, nel modo in cui sono presentate, quella falsità di tanti cinegiornali nazisti che mostravano il Ghetto di Varsavia con sequenze cinematografiche appositamente ricostruite e tese a far credere che gli ebrei stavano bene e se morivano era a causa della loro sporcizia e del loro modo di vivere.
La falsificazione fa parte della storia della fotografia, dalle immagini di Appert dopo la Comune di Parigi a quelle diffuse nella Russia di Stalin, dalla bandiera a stelle e strisce piantata a Jo Ima a quella con la falce e martello sulla porta di Brandeburgo a Berlino nel 1945. Quest’opera di falsificazione si è accentuata nel corso del tempo, sino a mettere in discussione qualunque immagine riguardante un avvenimento importante e in particolar modo drammatico. Ciò non vuol dire negare l’azione di tanti fotoreporter onesti e coraggiosi che spesso, al prezzo della loro vita, hanno documentato la verità. La celebre frase di Robert Capa, uno che ci ha rimesso la pelle, sul fatto che se una fotografia di guerra non ti è venuta bene è perché non ti sei avvicinato abbastanza al combattimento, è ancora valida. Ma la questione non sta nel coraggio del fotografo (può scegliere se rischiare la vita o meno), ma nel cinismo del mercato e su come si è andata organizzando la visione nella civiltà contemporanea: uno sguardo distratto che non richiede verifiche.