sabato 21 maggio 2011

“In piedi! Morti!” I caduti e la Grande Guerra Seconda Parte

“Nuove invenzioni, come l’automobile, il telefono, il telegrafo o il cinematografo – tutte presenti alla svolta del secolo – parvero rivoluzionare il concetto stesso del tempo. Non sembravano più esistere né un’unica realtà né uno spazio assoluto, e gli uomini e le donne di quegli anni si trovarono a far fronte ad un caos d’esperienza.”
(da Le guerre mondiali, dalla tragedia al mito dei caduti, di George L. Mosse, pgg. 60-61, Ed. Laterza, 1998)
La lettura dell’opera di G.L. Mosse sulla nascita del mito dei caduti nella Grande Guerra, è fondamentale per la comprensione dell’impatto che il Primo Conflitto Mondiale ebbe sulle società europee. Lo storico tedesco individua il sorgere del rapporto tra i vivi e i morti in guerra, attraverso l’analisi di una nuova e particolare forma di nuova comunità, condivisa da milioni di uomini: l’esperienza della guerra di trincea.
Il caos di esperienza di cui parla Mosse e che si verifica nel passaggio tra Ottocento e Novecento, potrebbe tradursi in un esempio.
Un uomo e una donna salgono su un’altura e guardano il paesaggio sottostane, è nuovo, è pieno di cose mai viste e che si muovono con una velocità sconosciuta. Questi due individui osservano e rimangono affascinati da ciò che vedono, ma ne sono anche atterriti, forse violentati. Attrazione e paura si fondono nel bisogno di controllare ciò che sta avvenendo ai loro piedi: il vecchio mondo li serra tra le sue braccia come in una morsa, nel contempo sentono sulle loro spalle la spinta di una forza prodigiosa che li trascina in avanti. E’ un conflitto forte e di natura intima che suscita l’attesa di un qualcosa che deve accadere affinché il tutto si liberi per trasformarsi in una forma nuova di ordine e cessi questo senso di vertigine.

1908, sequenza fotografica di un incidente durante una gara automobilistica sul Ballon d’Alsace



Questo qualcosa accade: è la guerra.
Il caos di esperienza vissuto prima del 1914, trova il suo ordine nella religione della nazione e della patria. Il conseguimento della vittoria diventa una missione religiosa, una crociata in cui i caduti sono i nuovi santi e martiri. La guerra mondiale diventa così una sorta di imbuto in cui si versano tutte quelle esperienze che costituivano un caos.
Il soldato del 1914 è diverso da quello delle guerre precedenti, innanzitutto perché gli eserciti sono di gran lunga più numerosi e poi perché c’è una motivazione diversa che spinge gli uomini a combattere.
Ogni nazione che partecipa al conflitto si sente minacciata nella sua sopravvivenza e i combattenti, in modo più o meno convinto, accettano questa motivazione. Ci vorranno almeno due anni perché si manifestino i dubbi e le incertezze per un conflitto di cui lentamente si smarriscono le finalità e il senso. I soldati comunque continueranno ad uccidersi sino al novembre del 1918, il solo caso in cui un esercito si sfalderà sarà quello russo con la rivoluzione del 1917. L’ammutinamento dello Chamin des Dames per i francesi e la rotta di Caporetto per gli italiani, saranno recuperati dagli apparati militari. La linea del Piave, da difendere a ogni costo, diventerà il simbolo della patria in pericolo e l’osservazione degli storici si è concentrata sul fatto che da questo momento si verifica una maggiore partecipazione del popolo italiano alla guerra in cui era stato portato contro la sua volontà.
Il soldato delle guerre precedenti non aveva tomba, non aveva nome, non aveva grandi cimiteri in cui lo sguardo si perde su un’infinità di lapidi e croci. Nell’Ottocento c’erano state battaglie molto sanguinose e che avevano suscitato repulsione per l’elevato numero di caduti, ad esempio quella di Solferino e S. Martino nel corso della Seconda Guerra d’Indipendenza Italiana, ma a Solferino e a S. Martino non ci sono cimiteri militari. Ci sono invece due ossari in cui vennero raccolti i resti anonimi di migliaia di caduti.

San Martino della Battaglia, ossario dei caduti nella cappella dei Conti Treccani, fotografia di S. Viaggio






La differenza tra un ossario militare e un cimitero della Grande Guerra è nel fatto che visitando il primo si osserva una morte assolutamente nuda: i teschi, le ossa, tutto ben disposto in fila o ordinatamente accumulato. Per l’uomo di oggi, visitare un ossario è come compiere un salto indietro nel tempo, sino al Medio Evo e alle danze macabre dell’occidente cristiano.

San Martino della Battaglia, ossario dei caduti nella cappella dei Conti Treccani, fotografia di S. Viaggio






Nel cimitero militare sorto dopo la Prima Guerra Mondiale, invece è possibile camminare all’aria aperta accanto alle croci e scoprire uno per uno chi sono coloro che giacciono sotto quel fazzoletto di terra. Questo fatto è importante perche di ogni nome esiste, o è esistita, una famiglia (non dobbiamo dimenticare che dal 1914-1918 ci separano ormai quasi cento anni); è possibile che singoli o gruppi di persone vengano a visitare questi cimiteri per trovare nomi e lasciare un fiore sulle tombe di antenati caduti nella Prima Guerra Mondiale. Durante l’estate si può assistere ad vero e proprio turismo cimiteriale nei luoghi che furono teatro della lotta sul Fronte Occidentale o in quelli del conflitto italo austriaco. I cimiteri militari hanno una loro architettura e sono composti in modo tale da restituire il senso di una grande tragedia e del ricordo di un sacrificio collettivo in nome di un più alto interesse generale. Sulle milioni di croci ci sono i nomi dei soldati caduti e la data della morte, colpisce lo sguardo l’incontro con una lapide in cui c’è scritto “soldato sconosciuto”.

Cimitero militare del Commonwealth di Etaples, Pas-de-Calais, fotografia di S. Viaggio






La fotografia come entra nel complesso meccanismo mentale che stiamo cercando di delineare?
Se la fotografia è anche il ricordo di un attimo appena trascorso, l’ombra e la traccia di un volto o di una situazione fissata per sempre, allora essa contribuisce in modo determinante alla nascita del mito dei caduti nella Grande Guerra.
Il motivo va ricercato nello straordinario diffondersi della fotografia, in particolare del ritratto fotografico, negli anni precedenti il 1914 e dal fatto che dei tanti soldati caduti, le famiglie conservano almeno un’immagine dell’ucciso. Questa immagine diventa una sorta di altare privato eretto nelle singole case e che si trasforma in sacrario quando i caduti vengono messi insieme nello stesso cimitero. Sono spesso le fotografie famigliari a formare un insieme di volti che ancor oggi possiamo vedere sui monumenti ai caduti. Il legame tra i vivi e i morti non è più soltanto costituito da ricordi, ma reso possibile da un elemento concreto, materiale: la fotografia incorniciata e appesa ad un muro, posta su un mobile nel salotto o in camera da letto, inclusa in album o conservata in un cassetto a eterno ricordo di colui che si è sacrificato per la patria. Il ritratto fotografico è ingrandito e posto accanto al nome, all’anno della morte e al grado, nel monumento ai caduti di villaggi piccoli e grandi.

Pierre
Un soldato caduto nella Prima Guerra Mondiale. Sul retro la seguente dedica:
Souvenir de notre petit Pierre qui a combattu si vaillamment pendant 3 mois ! mort pour la patrie le 30 octobre 1914 dans la paix de Dieu.



La fotografia dei caduti in guerra, è l’ombra che aleggia attorno ai vivi che debbono, dopo l’immane catastrofe, ricominciare a costruire la loro vita in una società completamente mutata a causa della guerra.

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